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  • Immagine del redattoreDavide Rinaldi

Il realismo magico di Paolo Sorrentino

Sono un ex-bambino della Napoli degli anni '80, da adolescente mi sono trasferito in provincia di Roma e attualmente mi occupo di immagini in movimento, di documentari.

Quando ho letto la trama di È stata la mano di Dio ho avuto la sensazione egocentrica e presuntuosa che questo film avrebbe parlato di me, immaginavo e speravo che mi avrebbe forse fatto rivivere certe sensazioni della mia infanzia.


E' stato molto più.


Seguo Sorrentino da quando uscì Le conseguenze dell'amore; erano i primi anni 2000, e noi studenti del Dams cercavamo miti da imitare e autori e registi che potessero farci discutere, litigare, sentirci parte di una Nouvelle Vague, protagonisti di qualcosa.

Di Sorrentino apprezzavo, e ancora oggi apprezzo, il suo essere un regista geometrico, glaciale, sia nel contenuto che nella forma, i suoi movimenti di macchina chirurgici e studiati, i suoi dialoghi disincantati, le colonne sonore postmoderne, il suo cinema raffinato e talvolta respingente.

Viceversa mi ha sempre fatto sorridere il tentativo di accostare Sorrentino a Fellini, situazione che il regista ha sempre cercato di alimentare sin dagli inizi, disseminando i suoi film di piccole citazioni ed echi, dalla semplice scelta del nome Titta (qualcuno ha visto Amarcord?) fino a utilizzare un intero impianto antico, la sinossi e gli archetipi de La dolce vita, vista però con occhi e personaggi contemporanei, ne La grande bellezza.

Tuttavia ho sempre ritenuto Sorrentino distante anni luce da Fellini, prima di tutto perché verso i suoi personaggi non prova lo stesso “affetto” (piuttosto un certo distacco e talvolta disistima), e poi per una serie di scelte narrative e formali studiate, calcolate al millimetro, tutt'il contrario di Fellini e del suo approccio verso il cinema “di pancia”, quasi da commedia dell'arte.

Sorrentino molto più “svizzero”, Fellini decisamente più “Italiano”.

Insomma, date le premesse sapevo che il film difficilmente mi avrebbe lasciato indifferente.

La prima inquadratura di È stata la mano di Dio è un lento avvicinamento alla città di Napoli, poi la macchina da presa ruota quasi completamente verso le isole e il mare aperto; un piano sequenza “alla Sorrentino”: un film che sembra puntare l'obiettivo verso una città, ma invece parla degli abissi e delle profondità dell'animo umano.

Un'inquadratura che spiega già cosa stiamo per vedere.

Da quel momento però inizia un altro film.

C'è uno spicchio di famiglia: un padre e una madre affettuosi, una nobile decaduta, una zia obesa che si esprime solo attraverso fonemi sibillini (tra un morso e un altro a zizzona di mozzarella), gli scherzi telefonici e poi ancora, suoni e schiamazzi (il fischio di famiglia), il meraviglioso sogno erotico (che però contiene in sé la caducità della vita e della psiche), la gelosia, il dolce annoiarsi dell'infanzia, e “il” Napoli di Maradona, sullo sfondo (che non si vede mai).

Questo primo lunghissimo “atto” del film non può lasciare indifferenti: il pubblico pop che si aspettava un panegirico su "Napoli firmata Sorrentino" rimane deluso, non ci sono vicoli, presepi, pizze fritte, canzoni, Maradona, sole, mare e criminalità.

Il pubblico cinefilo, ammiratore del classico Sorrentino, rimane spiazzato, molto rumore, confusione, personaggi estremi che possono sembrare finti, roboanti.


Ma non è questo il punto.


Il punto è un altro: il film non è una fotografia ben costruita di “quella Napoli” (ammesso che ce ne fosse stata una e una sola), la sensazione che rimane, dopo aver assistito a quel tripudio estremo, se ci si lascia trasportare, è il ricordo dell'infanzia, con gli occhi dell'infanzia, che deforma, mitizza, ingigantisce e romanza tutto.

Come quando ci si sveglia da un sogno, anche se i fatti sono inverosimili, lo stato d'animo è vero e presente.

Personalmente ho potuto provare, in modo davvero inedito, stati d'animo che non sentivo da anni, una vitalità smarrita, un mondo molto più collettivo e ingenuo del nostro.

La sensazione cresce piano piano dopo il punto di rottura del film, dopo il dramma, questo sì, vero, intenso, accennato, fino ai titoli di coda.

Quello che resta, alla fine del film, è la somma di due momenti distinti della vita, l'infanzia con i suoi colori sgargianti, e la difficile accettazione dell'età adulta, dei suoi drammi e delle sue speranze.

Il teatro, il cinema, la musica: i giocattoli con cui i grandi cercano di superare lo spavento del tempo che come Saturno tutto divora, anche i suoi figli.

E allora ascoltare Napule è di Pino Daniele, mentre il treno avanza (verso il futuro e verso Roma), ha tutto un altro sapore, non si tratta della nostalgia stereotipata e posticcia di una Napoli che non fu, ma di un congedo di un'epoca della vita, non solo di Sorrentino, ma di tutti.

La trasformazione da bambino in adulto, la più grande magia che esista.

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